Intervento di Dario Antiseri, Filosofo – Ditelo “sui tetti”

La “via aurea” del cattolicesimo liberale

Il principio di sussidiarietà: dalla Quadragesimo Anno alla Centesimus Annus

Dario Antiseri

9 marzo 2022

 

Una formulazione esplicita del principio di sussidiarietà la troviamo nella Quadragesimo Anno (1931). Qui Pio XI, al paragrafo 80, fissava nel principio di sussidiarietà «il principio importantissimo» della vita sociale: «che siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle».

Siffatto principio – il principio di sussidiarietà – è stato successivamente ripreso e riconsiderato in encicliche papali e altri documenti ufficiali; e si è configurato come un cardine del pensiero sociale della Chiesa cattolica. Principio di sussidiarietà è esattamente il titolo del paragrafo 48 della Pacem in Terris (1963) di Giovanni 82 XXIII, il quale ne estende il valore alla comunità internazionale. «Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i Poteri pubblici delle rispettive Comunità politiche, nell’interno delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così alla luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti fra i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche e i Poteri pubblici della Comunità mondiale. Ciò significa che i Poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per la loro ampiezza, complessità e urgenza i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche non sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive». Una tale prospettiva implica – prosegue l’Enciclica – che «i Poteri pubblici della Comunità mondiale non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione di Poteri pubblici nelle singole Comunità politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su piano mondiale di un ambiente nel quale i Poteri pubblici delle singole Comunità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza».

Nel 1986 l’Istruzione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede Libertà cristiana e liberazione ribadisce (al paragrafo 73) che è il valore della dignità umana a legare il principio della solidarietà e il principio di sussidiarietà. E se in virtù del principio di solidarietà «l’uomo deve contribuire con i suoi simili al bene comune della società, a tutti i livelli», in virtù del principio di sussidiarietà, «né lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa e alla responsabilità delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà. Con ciò, la dottrina sociale della Chiesa si oppone a tutte le forme di collettivismo».

Del 1991 – come si è già detto – è la grande Enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II. Nel paragrafo 15 (b) leggiamo che lo Stato deve intervenire secondo il principio di sussidiarietà e di solidarietà. Secondo il principio di solidarietà «ponendo a difesa del più debole alcuni limiti  dell’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato». Secondo il principio di sussidiarietà – «creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza». Più avanti nel paragrafo 48, sul tema dei compiti dello Stato in campo economico, l’Enciclica ribadisce che lo Stato deve garantire a tutti la sicurezza, la libertà di operare e la moralità pubblica; che «altro compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico», ben sapendo che «in questo campo la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società»; che «non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irregimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli»; che «lo Stato […] ha il dovere di assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi»; che «lo Stato […] ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo»; che, per periodi per quanto possibile limitati nel tempo, lo Stato «può svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito».

È su questo sfondo circa i rapporti tra individui, corpi intermedi e Stato, che la Centesimus Annus mette in luce gli errori dello «Stato assistenziale» e riconferma l’imprescindibile valore del principio di sussidiarietà. Il Welfare State ha cercato di porre rimedio «a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana». Tuttavia – prosegue la Centesimus Annus al paragrafo 48 (d) – «non sono […] mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo 85 Stato del benessere, qualificato come “Stato assistenziale”. Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».

I danni provocati dall’assistenzialismo sono, in realtà, enormi: «intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese». E c’è di più, giacché – contro le pretese dello Stato onnipotente ma anche dello Stato onnisciente – il Papa insiste sul fatto che «conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso». E non va poi affatto dimenticato che «spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossicodipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno efficacemente fraterno». Da qui, allora, la particolare attenzione rivolta da Giovanni Paolo ii all’azione caritativa del “volontariato”, alla politica in favore delle famiglie, all’apporto di solidarietà delle altre società intermedie, alla difesa della scuola libera.

Fatte queste premesse, è sul principio di sussidiarietà che insiste la dottrina sociale della Chiesa e sul quale hanno puntato i teorici del liberalismo cattolico e anche non cattolico. «Gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze, si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, grandi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione». È così che Alexis de Tocqueville, ne La democrazia in America, descrive il funzionamento, nella vita sociale, di quel principio che in seguito verrà chiamato «principio di sussidiarietà». Tale principio – autentico baluardo a difesa della libertà degli individui e dei corpi intermedi» nei confronti delle pretese onnivore dello statalismo – come abbiamo avuto modo di constatare, trova una formulazione, ormai diventata classica, nell’Enciclica Quadragesimo anno (1931) di Pio XI.

Siffatto principio, successivamente ripreso in altre Encicliche papali e in documenti ufficiali della Chiesa, era stato già formulato da Rosmini nella Filosofia della politica, dove leggiamo che «il governo civile opera contro il suo mandato, quand’egli si mette in concorrenza con i cittadini, o colle società ch’essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale; molto più quando, vietando tali imprese agli individui e alle loro società, ne riserva a sé il monopolio». In breve: lo Stato «faccia solo quello che i cittadini non possono fare». In un discorso pronunciato in Senato, il 20 febbraio del 1954, Sturzo affermava: «Non nego un misurato intervento nelle varie branche dell’attività privata, specialmente a scopo integrativo, e dove l’iniziativa privata non possa da sé corrispondere adeguatamente alle esigenze pubbliche». È questo, dunque, il principio di sussidiarietà orizzontale ben diverso dall’altra formulazione che porta il nome di sussidiarietà verticale dove, per esempio, si dice che la nazione farà quello che non farà l’Europa, la Regione farà quello che non fa lo Stato, la Provincia farà quello che non fa la Regione, e i Comuni e le Aree metropolitane faranno quello che non fa la Provincia. E qui è chiaro che, se il principio di sussidiarietà verticale non viene esplicitamente coniugato con quello di sussidiarietà orizzontale, si cade in modo inequivocabile in una più subdola e pericolosa forma di statalismo celebrata nella formula: ciò che non fa il pubblico lo fa comunque il pubblico. E non è detto che il pubblico più vicino alla gente abbia il cappio meno stretto. In ogni caso è proprio contro ogni forma di oppressione nei confronti della libertà, responsabilità, spirito di iniziativa dei singoli e delle associazioni spontanee che è stato difeso il principio di sussidiarietà orizzontale e ovviamente non solo dai cattolici. La Filosofia della politica di Rosmini è del 1838. Undici anni più tardi, nel 1849, J.S. Mill pubblica On Liberty, ben consapevole che «i mali cominciano quando invece di fare appello alle energie e alle iniziative di individui e associazioni, il governo si sostituisce ad essi; quando invece di informare, consigliare e, al- 28 l’occasione, denunciare, e imporre dei vincoli, ordina loro di tenersi in disparte, e agisce in loro vece».

Su questa linea si sono mossi i grandi liberali del nostro secolo: Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Karl Popper, tra altri. Scrive Hayek: «È totalmente estranea ai principi base di una società libera l’idea secondo la quale tutto ciò di cui il pubblico ha bisogno debba essere soddisfatto da organizzazioni obbligatorie». Il vero liberale, ad avviso di Hayek, deve auspicare il maggior numero possibile di associazioni volontarie, di quelle organizzazioni «che il falso individualismo di Rousseau e la Rivoluzione francese vollero sopprimere». E, poi, Karl Popper: «Io sostengo che una delle caratteristiche della società aperta è di tenere in gran conto, oltre alla forma democratica di governo, la libertà di associazione e di proteggere e anche di incoraggiare la formazione di sotto-società libere, ciascuna delle quali possa sostenere differenti opinioni e credenze».

A fondamento del principio di sussidiarietà vi è in primo luogo la fede nella libertà: si tratta di un fondamento etico. Aveva ragione Tocqueville a sentenziare che quanti nella libertà cercano qualcosa di diverso dalla libertà sono nati per servire. Inoltre, seguendo Hayek, sappiamo che la soluzione della maggior parte dei problemi (e, dunque, il soddisfacimento dei bisogni umani) deve venir lasciata a quanti sono in possesso di quelle conoscenze di situazioni particolari di tempo e di luogo disperse tra milioni e milioni di uomini, conoscenze di cui non potrà mai disporre nemmeno il più potente governo, né il più sapiente e potente tiranno. Per questo, in un orizzonte del genere, ognuno vede «l’importanza dell’esistenza di numerose associazioni volontarie non soltanto per gli scopi particolari di coloro che condividono un interesse comune ma anche per fini pubblici nel vero senso della parola». Lo Stato, prosegue Hayek,

«dovrebbe avere il monopolio della coercizione necessaria a limitare la coercizione stessa; ciò non significa che lo Stato debba avere l’esclusivo diritto di perseguire fini pubblici». Sennonché, «l’attuale tendenza dei governi a portare tutti gli interessi comuni di vasti gruppi sotto il proprio controllo tende a distruggere il vero spirito pubblico. Come risultato, un numero sempre crescente di uomini e donne si sta allontanando dalla vita pubblica, a cui in passato avrebbe dedicato molte energie».

Il problema

Il problema delle scienze sociali è l’individuazione di un metodo che possa spiegare i fenomeni in modo coerente, non attribuendo valore e forma autonomi alla società in quanto tale – una sorta di durkheimiana coscienza collettiva, di quid tertium indipendente dalla volontà degli individui, che incombe inesorabilmente e deterministicamente sui loro destini –, la Dottrina sociale della Chiesa, riflettendo sui fatti che interessano la vita politica, economica e culturale di una comunità, non può esimersi dalla medesima preoccupazione. Quale dovrà essere, dunque, il suo approccio nei confronti di concetti quali lo Stato, la sovranità, il diritto, l’impresa, il mercato? Ci soffermeremo brevemente sul cosiddetto paradigma della sussidiarietà, in quanto soluzione esistenzialmente coerente con il primato della persona umana, e sul ruolo attribuitogli dalla moderna Dottrina sociale della Chiesa, avente cura dell’ineludibile libertà e responsabilità della medesima persona.

Le ragioni logiche della sussidiarietà

Tra i principali risultati ottenuti dalla moderna epistemologia delle scienze sociali annoveriamo indubbiamente la consapevolezza che la competizione delle idee, dei desideri, dei progetti produce un ordine rispetto alle incalcolabili circostanze della vita reale che nella loro totalità non sarebbe accessibile ad alcuna persona e ad alcuna istituzione; ne consegue che simile adattamento di natura politica, economica e giuridica non potrà essere ottenuto mediante il ricorso ad una direzione centrale, bensì è la risultante di un processo al quale concorrono in via sussidiaria le persone e le istituzioni più prossime alla conoscenza del problema; per dirla con le parole di del premio Nobel per l’economia Friedrich August von Hayek: “Perché il sistema funzioni l’essenziale è che ogni individuo possa agire in base alla sua particolare conoscenza, sempre unica, almeno in quanto si applica a circostanze particolari, e che possa utilizzare le sue capacità individuali, e le sue occasioni entro i limiti a lui noti”». È questo il fondamento logico del principio di sussidiarietà.

Il paradigma della sussidiarietà

La riflessione epistemologica e storica proposta incontra l’analisi condotta da alcuni studiosi sulle politiche di welfare, i quali hanno focalizzato focalizza l’attenzione su particolari dimensioni esistenziali dalle quali normalmente dipende il nostro giudizio sulla qualità della vita. La proposta che scaturisce dal paradigma della sussidiarietà è di limitare il ruolo dello Stato alla promozione e al riconoscimento di alcuni diritti fondamentali e assegnare un maggior potere alle associazioni spontanee, a quelle speciali organizzazioni della società civile che figurativamente stanno tra lo Stato e i singoli individui, nelle quali è possibile promuovere la responsabilità personale ed educare i cittadini ad un crescente grado di impegno civile; è interessante notare come il politologo don Luigi Sturzo chiamasse tali realtà sociali “enti concorrenti”, per esprimere non tanto la dimensione intermedia, quanto quella concorrente rispetto alle pretese onnivore dello Stato.

Partiamo dal presupposto che nel dibattito culturale contemporaneo sembrerebbero emergere due tendenze tra loro contraddittorie. La prima riguarda un crescente desiderio di servizi forniti dallo Stato, mediante appositi programmi di assistenza pubblica. D’altro canto, si nota un crescente sentimento contro l’invadenza dello Stato ed il suo invadente ruolo nella vita sociale; si lamentano le sue mastodontiche dimensioni e la progressiva burocratizzazione della società civile.

L’alternativa è un nuovo modello di welfare. L’idea di fondo che muove la proposta in questione è incentrata sul ruolo degli enti intermedi/concorrenti. Si tratta di un concetto classico e consolidato nella tradizione politica occidentale. Per enti intermedi/concorrenti intendiamo “quelle istituzioni che stanno tra gli individui nella loro vita privata e le grandi istituzioni della vita pubblica”. Vita privata e sfera pubblica appaiono sempre più come realtà dicotomiche, dove a farla da padrone sarebbe l’entità pubblica per eccellenza: lo Stato. Accanto ad esso vanno assumendo sempre maggior importanza le cosiddette megastrutture della sfera economica e produttiva. È questo il caso delle grandi aziende nelle quali è presente una forma altrettanto radicata di burocratismo che finisce per investire ampi settori della società civile, condizionando la cultura e la formazione di intere generazioni. Accanto alla dimensione pubblica, tuttavia, si nota una crescente e più che legittima ricerca di spazi per preservare la dimensione privata della propria vita, la quale però appare meno protetta dalle istituzioni.

In questa situazione, gli individui “migrano” da una sfera all’altra, vivono gran parte della loro vita all’interno di megastrutture alienanti o quanto meno incapaci di dare un senso ed un’identità alla loro esistenza, ma non intendono rinunciare ad uno spazio proprio, una realtà esclusiva all’interno della quale è rassicurante stare con le persone care o, per lo meno, con coloro i quali si crede sia possibile condividere un ideale, un impegno, una vocazione che dia senso alla propria esistenza. Senso e identità, appunto, che gli individui ricercano rifugiandosi nella sfera del privato, che, tuttavia, non sempre si mostra in grado di preservare gli individui dal vuoto della solitudine o dall’ansia di un futuro incerto e privo di garanzie.

La dicotomia tra le due sfere evidenzia, oltretutto, una doppia crisi: una individuale ed una politica. La prima si manifesta quando i soggetti mostrano di non saper equilibrare in modo adeguato le esigenze provenienti da entrambe le sfere; la seconda è propriamente politica, in quanto le megastrutture – a cominciare dallo Stato – vengono viste sempre più come un ostacolo alla propria realizzazione esistenziale e finiscono per essere percepite come il nemico da abbattere. I sociologi Berger e Neuhaus vedono nella rete degli enti intermedi/concorrenti un’eventuale via di uscita alla dicotomia pubblico-privato e la possibilità di risolvere le problematiche esistenziali, politiche ed economiche che essa evidenzia.

Tali istituzioni presentano un volto privato, garantendo ai soggetti l’intangibilità della propria vita ed il rispetto dei propri ideali, ma nel contempo presentano anche un volto pubblico, proiettando sulla megastruttura il senso e l’identità sviluppati al loro interno. In tal modo, gli enti intermedi/concorrenti possono stemperare le manifestazioni critiche, tanto esistenziali quanto politiche, e, in forza della posizione strategica che occupano nella società, possono ridurre sia il senso di precarietà e di anomia, che rischia di invadere l’esistenza degli individui che decidono deliberatamente di prendere le distanze dalla società, sia la minaccia di alienazione che deriva dalle megastrutture politiche ed economiche.

Tale paradigma della sussidiarietà si esplicita in almeno quattro punti fondamentali, i quali promuovono un rinnovato sistema di welfare, che sfidi le pretese onnivore dello Stato e che sia conforme al pluralismo istituzionale che configura la cosiddetta società aperta o big society che dir si voglia. In pratica, quei sistemi politici, economici e culturali contraddistinti da una poliarchia/plurarchia irriducibile alla funzione finalistica dello Stato centrale:

La dimensione plurarchica della società civile e la sistemazione poliarchica dell’ordine sociale.

La società aperta, ovvero la big society, si presenta come una realtà estremamente ricca dal punto di vista delle potenzialità economiche. Il che consente un più ampio margine di manovra e di sperimentazione.

Nella società aperta, ovvero nella big society, lo spirito democratico, di tolleranza e di giustizia sono abbastanza diffusi tra la popolazione, il che rende la società aperta ben disposta ad accogliere politiche improntate al pluralismo.

Per quanto possano apparire deboli, le istituzioni politiche, economiche e culturali nei sistemi plurarchici/poliarchici, esse garantiscono una rete di forze che si bilanciano a vicenda, impedendo che nessuna prenda il sopravvento sull’altra.

La dottrina sociale della Chiesa

L’integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa favorirebbe il passaggio da una società organizzata secondo il principio “paternalista” e statalista” ad una comunità articolata secondo il principio di sussidiarietà.

Il principio in questione descrive il modo in cui soggetti operanti all’interno di una società: la persona, la famiglia, la comunità degli imprenditori, le istituzioni politiche, e tutto ciò che è presente nell’ampia e ricca società civile, dovrebbero relazionarsi tra loro. Il principio di sussidiarietà disegna l’articolazione tra i soggetti che compongono il corpo sociale. Se, come ripetutamente affermato, persona, famiglia e società hanno una fondazione e una legittimazione autonoma dallo Stato; e se, di conseguenza, lo precedono e, in un certo senso, lo pongono in essere, allora ne consegue che lo Stato deve in primo luogo rispettare e promuovere questi elementi costitutivi, senza alcuna pretesa egemonica su di essi.

Questo significa che lo Stato dovrà astenersi sempre dal promuovere azioni che siano di competenza delle realtà sociali che lo precedono. L’unica sua azione tollerabile sarà di intervenire con strumenti adeguati ad aiutare le comunità ad esplicare le loro funzioni e a svolgere quei compiti che appartengono a loro in modo primario.

Il principio di sussidiarietà rappresenta un cardine empirico della moderna Dottrina sociale della Chiesa e, mentre contrasta con il centralismo tipico dei sistemi che prediligono soluzioni stataliste-monopolistiche in campi come la scuola, l’impresa e la previdenza sociale, ben si concilia con le forme più avanzate della tradizione liberale.

Tale principio si propone di risolvere, attraverso il ruolo attivo dei soggetti che compongono la società civile, le difficoltà create nel settore privato da un comportamento prettamente egoistico e nel settore pubblico dalla centralizzazione illiberale del potere dello Sato. Alla base c’è la certezza che tra lo Stato impersonale e l’individuo abbandonato a se stesso, si profili una prima linea di difesa rintracciabile nei corpi intermedi, negli enti concorrenti, nei piccoli plotoni, nei mondi vitali, come ad esempio la famiglia, le imprese, le scuole, le associazioni, le chiese, e che il loro spontaneo agire sia indispensabile per un equilibrato sviluppo della persona umana ed una più equa organizzazione politica, economica, culturale e soprattutto giuridica, fondata sulla nozione di libertà integrale e di giustizia sociale.

Possiamo riassumere il carattere politico di una società ordinata secondo il paradigma personalista della sussidiarietà nell’affermazione che lo Stato non deve avocare a sé le competenze di ambiti che, invece, appartengono ad istituzioni di ordine inferiore. Deve semmai sorvegliare che tali istituzioni adempiano ai loro compiti, e deve intervenire solo nel caso in cui esse, faticando a raggiungere i loro obiettivi, debbano essere prima sostenute e poi, eventualmente, sostituite. In breve, vale latino pronunciato da Pio XII: civitas propter cives, non cives propter civitatem.

In questo modo la Dottrina sociale della Chiesa rivendica l’autonomia della società civile dalla presenza onnivora di uno Stato omnipervasivo, ponendo le basi perché si sviluppi, in forza del principio di associazionismo (sussidiarietà orizzontale) l’azione civile dei cattolici. Vale quanto ha osservato l’economista Röpke in ordine ai fondamenti della società libera: «I contenuti delle fede e le salde convinzioni sono indubbiamente le maggiori fonti di resistenza contro l’onnipotenza statale, il più forte contrappeso alla collettività e la più sicura e indispensabile difesa contro il conformismo e l’opportunismo cinico. Essi costituiscono la zona dei valori universali al di sopra dello Stato, delle forze sopracentraliste che lo devono limitare al pari delle forze decentranti […] e che collaborando con queste dànno per risultato una società sana»[1].

Conclusioni

Il paradigma della sussidiarietà consiste nel ritenere che lo Stato dovrebbe come minimo incoraggiare l’azione dell’associazionismo, quanto meno per tentare di porre un qualche rimedio all’opprimente burocratizzazione e alla proliferazione di norme. In definitiva, i corpi intermedi sono agenti del pluralismo, della democrazia e della solidarietà, strumenti necessari per riformare la società di qualsiasi paese al mondo e per rendere le sue istituzioni più salde. Pluralismo, democrazia e solidarietà, ad ogni modo, nella nostra prospettiva vanno ben oltre la mera coesistenza di più punti di vista e non interpretano il celebre motto “E Pluribus Unum” come un gioco a somma zero, nel quale le singole prospettive culturali si annullano a vicenda per dar vita ad una realtà artificiale culturalmente e politicamente neutra. L’unità d’intenti non andrebbe perseguita a spese della pluralità delle posizioni, bensì l’interesse pubblico – ovvero l’unum – dovrebbe promuovere la libertà – ovvero il plures –, certo consapevoli delle difficoltà e delle inevitabili tensioni che possono scaturire da un simile approccio. Tuttavia, lungi dal considerare tali tensioni una patologia della vita civle, è necessario che esse siano salutate come una preziosa opportunità per l’elaborazione di una inedita azione politica, aperta a nuove soluzioni. Si tratta di un’opera impegnativa che esalta la politica non tanto come “l’arte del possibile”, quanto come “l’arte di scoprire ciò che è possibile”, il che significa che compito del politico è di scoprire le modalità e le procedure affinché un obiettivo o in ideale ritenuti comuni possano essere raggiunti tra una miriade di interessi particolari.

[1] W. Röpke, Civitas humana, cit., p. 121.