“Sui tetti” di Avellino:
riaprire il dialogo sul Ddl Senato 2553
per “non abbassare la saracinesca sulla vita” (S.E.R. Mons. Aiello)
Dopo Milano, Bari, Piacenza, San Giovanni Rotondo, Agrigento e Siena, il dialogo sul disegno di legge per il c.d. “suicidio assistito” ha risuonato, forte e vivace, lunedì 20 giugno presso il “Polo giovani” di Avellino, promosso direttamente dalla Diocesi con la collaborazione del network delle associazioni dell’Agenda Pubblica “sui tetti”, con la particolare iniziativa di realtà quali il Centro Studi Livatino, Allenza Cattolica, il Family day, Steadfast e i Medici Cattolici.
Coordinati dalla delicata e attenta conduzione di Giusy Riggiola , prima di entrare nel merito delle relazioni, Domenico Menorello ha documentato i segni del “cambio d’epoca” rinvenibili nelle leggi e nelle sentenze italiane, che incessantemente dal 2015, anno dopo anno, pretendono di imporre con la forza propria del diritto una concezione di uomo totalmente definita dal mito dell’autodeterminazione, un uomo “solo”, misura di tutto, novello Prometeo, che percepisce i legami, il reale e la responsabilità come pregiudizievoli. “A noi, laici, – affermava– spetta il compito di saper mostrare a tutti la filigrana antropologica di questo nuovo diritto, apparentemente inneggiante alla libertà che però si trasforma in cultura dello scarto. Nel ddl Bazoli è chiarissimo: se il mio valore sta solo nella mia capacità di autonomia, come si legge all’art. 2, comma 3, quando questa non si potrà più recuperare a causa di una «condizione clinica irreversibile», quale una disabilità o una cronicità (cfr. art. 3, comma 2), allora non valgo più niente e un novello Stato etico mi proporrà il nulla come esito, con l’eutanasia”. “Possiamo e dobbiamo chiedere pubblicamente (“sui tetti”…) che ciascuno giudichi se siano più adeguati al cuore dell’uomo – e dunque ragionevoli – questa prospettiva nichilista o uno sguardo sull’uomo che si prende cura di ogni istante, specie se fragile e malato, perché proprio dalla crepa entra la luce della domanda di senso e di speranza, come possiamo leggere nel commovente libro della vedova dell’assassinato commissario Calabresi” (cfr. Gemma Calabresi Milite, La crepa e la luce, Mondadori, 2022).
A rendere una toccante testimonianza della possibilità di una cura nella frontiera dell’ultima fragilità è stato il medico palliativista Salvatore Di Matteo di Potenza: “Sembra una contraddizione voler curare la fine della vita, ma non lo è”, “perché -ha affermato- le cure palliative hanno un nuovo paradigma di cura: non curare per guarire, ma curare per dare sollievo”. E se “la fondatrice di questa prospettiva, Dame Cecily Saunders, si rese conto del bisogno di una medicina specifica, proprio per tale specificità va sottolineato che le cure palliative non sono solo una impostazione scientifica accuratamente strutturata, ma ricomprendono anche il saper accompagnare il paziente come relazione. Infatti, il dolore è anche legato a uno stato sociale, cosicché le cure palliative si prendono cura della persona nella sua globalità e relazionalità e per questo serve la collaborazione di più professionisti, che sappiano ascoltare persino la famiglia del paziente. Le cure palliative sono, in sintesi, competenza e compassione e come palliativista -ha scandito- posso affermare con certezza che ci consentono di controllare il dolore nel 100% dei casi”.
Il dott. Di Matteo riecheggiava, poi, quanto abbiamo ascoltato in altri incontri da suoi colleghi palliativisti di ogni latitudine italiana, dando atto, cioè, che, proprio in base alla sua esperienza, “è il dolore non controllato che genera la richiesta di eutanasia. Pertanto, se ci sono le cure palliative, le domande di eutanasia sono molto ridotte, al punto che negli ultimi anni ho incontrato nel mio reparto solo due richieste di morte da parte di persone che, avendo accettato il percorso terapeutico proposto, poi hanno anche preferito morire naturalmente”.
Di qui, il grido del medico impegnato nell’ultima frontiera, che, rivolgendosi alle istituzioni, ha invocato “un forte investimento sia in senso economico che in senso professionale, perché la legge 38/2010 è una legge straordinaria, ma gravemente non finanziata e dunque non utilizzata”. Una situazione totalmente ingiusta, perché, utilizzando le parole del messaggio della CEI del 6 febbraio 2022, invece “facciamo continuamente l’esperienza che quando una persona è accolta, accompagnata, sostenuta incoraggiata, ogni problema può essere superato o comunque fronteggiato con coraggio e speranza”.
La realtà fatta emergere dalla viva esperienza del palliativista ha consentito a Massimo Gandolfini di declinare alcune principali ragioni per cui questa proposta di legge è “molto negativa”, in quanto “contesta la sofferenza eliminando il sofferente”. “Non c’è dubbio – continuava il neurochirurgo- che le persone sofferenti e disperate siano accanto a noi, ma la risposta è farsi prossimo, accompagnare, curare, seguire”. Anzi, proprio “la richiesta di eutanasia ci impone di aiutare chi chiede aiuto, non di abbandonarlo, recuperando anche il senso di quel dovere di solidarietà scolpito addirittura all’art. 2 della Costituzione”.
Inoltre, Gandolfini invitava a una riflessione in base a normali parametri di ragionevolezza. “L’autodeterminazione senza limiti -specificava- non ha senso. Infatti, anche per la ragione laica la vita è un diritto indisponibile, semplicemente perché fonda tutti gli altri diritti”, come di recente è stato ribadito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 50/22. “Dunque, un testo che introduce un diritto di morte senza limiti è totalmente irragionevole, cosicché, se la proposta Bazoli offre la morte di stato alle patologie irreversibili con prognosi infausta, deve essere a tutti chiaro che di queste è piena la medicina e che si tratta di casi diffusissimi, come accade per il parkinson o, sempre per fare gli esempi più comuni, per le broncopneumopatie croniche ostruttive”. “Di qui, è ovvio -osservava ancora Gandolfini- che si arrivi alla frontiera dell’Olanda, dove dopo pochi anni dalla legalizzazione dell’eutanasia è in discussione una proposta di legge denominata «vita completata», per cui chiunque abbia compiuto 75 anni può chiedere allo Stato di essere ucciso”. Ma un simile crinale, aggiungeva, “stravolge anche la funzione della medicina come pensata sin dall’origine, sin da quando, cioè, Ippocrate giurava che non si sarebbe lasciato indurre dalle suppliche di alcuno a dare un veleno”.
Le contraddizioni descritte sul piano medico e della ragione hanno consentito al procuratore della Repubblica di Avellino, dott. Domenico Airoma, di illuminare la questione per il profilo del significato che dovrebbe avere il “diritto”. Innanzitutto, ponendo una domanda radicale, che ha interpellato ciascun presente in platea: “Chi può chiudere gli occhi davanti a certe sofferenze? E proprio perché vogliamo stare di fronte seriamente alla sofferenza, che mettiamo in guardia da sbrigative condanne a morte”. Infatti, “se il diritto è tutela dei più deboli, chiediamoci chi sia veramente il debole! Noi facciamo fatica a riconoscere la vere situazioni di debolezza, Una persona in un letto sofferente è debole. Dunque, è in grado di prendere decisioni con serenità? Quali sono le condizioni in cui possiamo prendere decisioni libere e consapevoli?” “Pertanto -proseguiva- dire a una persona debole rispetto alla procurata morte: «l’ha voluta lui» è rispettarlo o significa, piuttosto, chiudere gli occhi davanti al suo dolore e alla sua debolezza?”. “E’ libertà o abbandono?”.
Il dott. Airoma ha, poi, dettagliato questa nuova prospettiva di giudizio con esempi di una chiarezza magistrale. “Posso decidere liberamente di farmi schiavo di un’altra persona? No, perché interviene la norma e impedisce questa possibilità, anche se fosse voluta, in quanto il diritto difende il più debole”. “In quest’ottica, la Corte costituzionale ha attirato l’attenzione proprio sulla necessità di proteggere i più deboli dalla tentazione suicidiaria, “ponendo come condizione di qualsiasi scelta l’effettività di cure palliative ed escludendo esplicitamente che esista un diritto a morire”. Invece, lo slogan per cui se qualcuno “vuole togliersi la vita perché non lo può fare?”, ritenendo che “se io voglio, il diritto me lo deve consentire”, nasconde un inedito “diritto alla morte”, che non è compatibile con la Costituzione e che ribalta lo scopo stesso della funzione giuridica, perché “sbrigativamente” “condanna a morte il più debole”, anziché proteggerlo. Per questo, concludeva con forza il procuratore, “dobbiamo mettere al centro l’umano sfuggendo alla clava della suggestione propagandistica e affermando che non c’è un diritto di essere accompagnati a morire, ma di essere accompagnati nel morire”.
L’ordinario della Diocesi, Mons. Arturo Aiello, ospite del seminario, ha valorizzato i tanti spunti emersi, ordinandoli in una missione pienamente ragionevole e affascinante. “Ci sono impegni da assumere – ha iniziato il Vescovo – In particolare, bisogna tornare a parlare e a parlarci, perché sono in campo questioni importantissime per il futuro dell’uomo, per cui queste leggi devono essere accompagnate da dialoghi non ideologizzati”. Poi, mons. Aiello, fra la sorpresa dei presenti, ha squadernato il libretto del filosofo sudcoreano Byung-chul Han, La società senza dolore – Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite” (Einaudi, 2020). “Forse c’è una cultura analgesica che ci accompagna -ha chiosato- e che ci impone di essere belli, in salute e il moloch della salute ci tiene lontani dal saper guardare la fine della vita. Cercate un altro libro, «La morte amica-Lezioni di vita da chi sta per morire», dell’autrice francese Marie de Hennezel, con la prefazione di Francois Mitterand (Rizzoli, 1996), che esplora fatti dal mondo degli hospice, dove tenere la mano del paziente viene raccontato come un aiuto meraviglioso. Stiamo, allora, attenti a entrare nella logica di una vita perfetta, cioè di quella vita sempre in ottima salute che ci propinano, per cui qualsiasi difficolta diventa insormontabile. Nessun dolore vorremmo, ma nessun dolore è nessuna vita, perché la vita stessa nasce da un dolore per un bene grande, il parto, e finisce in un dolore. Certo: il dolore non va difeso, ma stiamo attenti ad evitarlo a costo della vita stessa”.
“L’invito che vi rivolgo -ha quindi incoraggiato il Vescovo di Avellino- è di prenderci cura sempre della vita, fino all’ultimo istante, anche perché uno può dire una parola nell’ultimo momento dell’esistenza che redime tutto quel che è successo prima. Perché chiudere la saracinesca sulla vita, quando potrei ancora dire «amen» o «ti voglio bene»? Così, anche Beethoven ha composto la nona sinfonia quando era del tutto sordo, cioè in una «condizione irreversibile», o Schubert, seppur malatissimo e pieno di sofferenza, ha continuato a scrivere musica”. “Si! Proprio alla fine della vita posso dire una parola, una invocazione, che salvano. Quindi intervenire in qualsiasi momento contro la vita, specie nell’approssimarsi della morte che è una circostanza massimamente solenne della stessa, per chiudere forzatamente ciò che può ancora essere, diventa un atto indebito”.
“Invece, -ha proseguito mons. Aiello- possiamo cantare la vita in qualsiasi stagione, nella primavera della giovinezza, come nell’autunno e nell’inverno. C’è una bellezza sempre possibile!”
Ognuno verifichi su di sé quale sguardo sull’uomo, quale antropologia gli corrisponda di più.
E per continuare a questo livello il dialogo per un giudizio sulla “morte medicalmente assistita”, l’Agenda si dà appuntamento il 24 giugno a Catania.