“Sui Tetti” di Catania:
Sala gremita al seminario arcivescovile di Catania, venerdì 24 giugno 2022, per riaprire, “dai Tetti” affacciantisi sull’omonimo golfo, il dialogo sulla proposta di legge “n. 2553 Senato”. L’evento, accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Catania, è stato organizzato da molte associazioni del network dell’Agenda Pubblica, fra cui Alleanza Cattolica, Centro Studi Livatino, Medici Cattolici, Uniti per la Famiglia, Unione Giuristi Cattolici, Movimento per la Vita, Scienza e Vita, Serra club, Steadfast ed altre, con la collaborazione dello Studio Teologico San Paolo della diocesi catanese e ha visto la partecipazione di numerose personalità istituzionali quali i senatori Tiziana Drago, Giuseppe Pisani e Grazia D’Angelo, il deputato Alessandro Pagano, il vicepresidente della Regione, Gaetano Armao, il vice-prefetto di Catania, Sarita Giuffrè, don Salvatore Bucolo, responsabile della Pastorale Familiare dell’Arcidiocesi di Catania.
Lucida l’introduzione della brillante coordinatrice,la dott.ssa Nunzia Decembrino, pediatra catanese, che ha fissato il livello del problema: “Questo disegno di legge può cambiare il nostro modo di pensare e il nostro sistema sanitario. Pretende di decidere quale vita sia degna e quale non degna di essere vissuta, quale morta sia «buona» e quale no”. “Dobbiamo essere consapevoli -continuava- che questa eventuale decisione del Parlamento può mutare la prospettiva culturale delle prossime generazioni, come è accaduto in Olanda. Per questo, tante associazioni vogliono riaprire il dialogo contro quella cultura dello scarto da cui ci mette in guardia Papa Francesco, e ciò anche per offrire delle alternative più umane come le cure palliative per i troppi che soffrono e non possono accedervi”.
Già dai “saluti” delle numerose istituzioni e realtà presenti arrivano vivaci riscontri alla richiesta di attenzione al tema, come quello del prof. Alberto Maira di reggente regionale di Alleanza Cattolica, che sottolineava come sia prezioso rompere un inaccettabile e irragionevole silenzio di fronte all’importanza di questa battaglia sia nel Parlamento che fra la gente, cui ha fatto subito eco l’avv. Roberta Passalacqua per l’Ordine degli avvocati di Catania, che poneva l’accento sulla necessità che anche il mondo forense prenda coscienza di quali questioni dirimenti per il bene-vita stiano per essere poste. Il fascino di “curare la vita nella fragilità” è stato testimoniato nel saluto del presidente Cesare Scuderi, del Centro Aiuto alla Vita di Giarre, con assonanze significativamente risuonate, poi, nell’accoglienza al convegno dedicata dalla dott.ssa Diana Cinà, Direttore Sanitario dell’Azienda Ospedaliera per l’Emergenza Cannizzaro di Catania la quale, anche a nome del Direttore Generale Salvatore Giuffrida, ha chiarito subito che il compito precipuo dei medici e del Sistema Sanitario Nazionale nella frontiera del fine-vita è proprio quello di “garantire la vita e la terapia del dolore” con le cure appropriate di cui alla legge 38/2010, che, tuttavia, come sottolineato anche dal dott. Massimo Martino, palliativista e presidente del Serra club di Catania, in Sicilia vede una applicazione troppo blanda. A questa carenza di supporto e presa in carico, spesso sopperiscono enti del terzo settore, come testimoniato da Valeria Pintaldi, presidente della Cooperativa l’Elefante Intraprendente, nata proprio con lo scopo di contrastare il senso di solitudine che le famiglie con disabili gravi vivono offrendo un percorso educativo di crescita, sviluppo ed inclusione.
Le parole inaugurali, infine, del prof. Salvatore Castorina riportate dal prof. Massimo Libra per l’AMCI-Medici Cattolici di Catania e del prof. Giuseppe Chiara di Scienza e Vita di Catania introducevano il merito delle successive relazioni, evidenziando, cioè, che “siamo in una frontiera che intercetta la medicina e l’antropologia al tempo stesso. Ma il timore -avvertono- è che ci sia una spinta verso una eccessiva semplificazione, mentre non dobbiamo accettare che si vada avanti per slogan come è il voler enfatizzare una assoluta e indiscriminata esaltazione dell’autodeterminazione, persino trascurando i paletti posti dalla Corte costituzionale”.
L’inizio dei lavori è stato affidato al prof. don Antonino Sapuppo, direttore dello Studio Teologico San Paolo, fra i più importanti riferimenti sui temi di bioetica della diocesi, che ha indicato immediatamente come non si tratti affatto di dialogare in astratto, perché “la bioetica è una riflessione sulla vita e il suicidio assistito appartiene al concetto che si ha della vita”. In questo senso, “di fronte allo struggente declinarsi delle condizioni di un malato terminale occorrono un rispetto e un ossequio di carattere sacrale verso quello che il soggetto vive in quel momento, perché il dolore ha una dignità da preservare e non può essere oggetto di pubblicità, come invece troppo spesso accade”. Per converso, -precisava- di fronte alla pubblicità di tesi ideologiche promosse con una spettacolarizzazione del dolore, dobbiamo prendere coscienza che “la malattia non è solo quella che ci fanno vedere, ma è soprattutto una dimensione in cui entra il mistero”.
Invece, proprio il mainstrem prevalente ci dovrebbe far accorgere che “siamo di fronte a una visione troppo individualista della vita, cui si accompagna una sorta di apatia morale davanti alla morte. Ciò accade perché una visione troppo individualista determina un annacquamento valoriale, in quanto si crea e si afferma un’etica del tutto soggettivistica e quando il tema è la sofferenza o la morte si preferisce non parlarne”.
Con ulteriore precisione, e ciò anche allo scopo di “leggere” la proposta di legge 2553, il prof. Sapuppo specifica che “la mentalità moderna si fonda sull’assolutizzazione del principio di autodeterminazione e ciò ha determinato un distacco fra la percezione di sé e la morale, anzi delle convinzioni ultime da Dio. Fino al punto che a noi sembra strano parlare di Dio, mentre abbiamo il dovere di riflettere su Dio, perché solo questa dimensione ci permette di capire chi e come siamo”.
L’assenza di un profilo esperienziale religioso non offre una speranza alla paura del e nel dolore. Se cioè – approfondisce il direttore dello Studio Teologico- si assume una concezione per cui “l’uomo è solo nell’universo, emerso per caso”, allora “la parte finale della vita può essere come vuoi tu”, “l’etica si risolve nel mero dato psicologico“ e la paura senza speranza diviene la fonte “di norme vincolanti”.
“Nessuno vuole soffrire ed è normale che si abbia paura di essere ammalati”, aggiungeva il prelato, ma la strada da imboccare è in un altro sguardo e nel riconoscere che “se si è accompagnati non è la stessa cosa se si è soli”. Per questo, “Papa Pacelli, ripreso da Papa Francesco, ha stabilito il principio dell’adeguatezza delle cure, senza accanimento terapeutico, e la capacità di accettare la fine della vita, perché, citando Benedetto XVI, «la morte va accolta e non somministrata»”, da cui ne discende la grande importanza delle terapie del dolore e palliative”.
Dunque, concludeva don Sapuppo, di fronte a scenari quali quelli prospettati dal disegno di legge 2553 non si può restare indifferenti e, anzi, “si impone l’educazione al senso e alla bellezza dell’esistenza”, nella maggiore consapevolezza della grande profondità dell’immagine utilizzata da Chesterton proprio sulla questione eutanasica e del suicidio, per cui “rifiutando l’amore per un fiore, si oltraggiano tutti i fiori” (GKC, Ortodossia, pp. 100-101).
Che -come ricordato- si tratti non di teorie ma di dati derivanti dall’esperienza è stato a seguire testimoniato da Claudia Di Tommaso, dirigente medico del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’AO per l’Emergenza Cannizzaro di Catania diretto dal dott. Savino Borraccino: “Ho imparato proprio nel mio lavoro – ha esordito raccogliendo le suggestioni di don Sapuppo, che il momento della morte è tutto di Dio. Quello che lo precede è affidato anche ai familiari e ai medici, secondo il principio dell’appropriatezza delle cure”. Proprio tale parametro è stato utilmente indagato dall’anestesista, che ha rappresentato come sia “il punto della reversibilità o irreversibilità della patologia a porre il tema dell’eventuale accanimento terapeutico, chiarendo che è Il medico ad avere il compito di individuare questo punto, comunque attivando in tutta la loro ampiezza i trattamenti palliativi, che sono sia clinici, sia costituiti dall’attenzione agli aspetti umani del paziente, così come devono coinvolgere le relazioni più importanti che lo stesso ha”.
Per avere conferma dello “sguardo largo” con cui il palliativista si rivolge alla persona che deve curare, i presenti hanno potuto ascoltare Igor Catalano, responsabile medico dell’hospice pediatrico Casa del sollievo dei Bimbi di Milano. “Nell’ambito delle cure palliative pediatriche -ha sinceramente riferito- sorgono domande potenti di fronte al dolore dei bimbi, che impongono come necessario un approccio multidisciplinare nel quale il bimbo non può essere separato dalla mamma e dal papà”. “In questo modo -proseguiva- le cure palliative attuano il rispetto dovuto a ogni essere umano ed è quindi grave constatare che siamo ancora troppo indietro nella applicazione di questi protocolli, essendovi ancora solo otto hospice pediatrici in tutta Italia”.
Agli ultimi due interventi veniva, infine, affidato il compito di entrare negli aspetti più strettamente biogiuridici della proposta di legge in esame, nonché di dare un aggiornamento sull’iter parlamentare in corso. .
Tanto icastico quanto efficace l’esordio del prof. Aldo Rocco Vitale del Centro Studi Livatino e dei Giuristi Cattolici: “Noi siamo chiamati a cercare un senso alla morte o a tener viva la domanda di un senso della morte in un’epoca in cui accade la morte del senso”. “Tuttavia -ha premesso, echeggiando la sentenza della Corte USA in tema di negata qualificazione come “diritto” dell’aborto di cui si aveva notizia durante il seminario- il diritto di morire non è mai stato affermato da alcuna Corte nella cultura giuridica delle due sponde dell’Atlantico, perché si è sempre intuito che ciò avrebbe determinato un grave vulnus per i soggetti più deboli. D’altronde, deve prevalere il diritto alla vita anche per l’inequivocabile tenore dell’art. 2 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo-CEDU”.
Invece, il ddl Bazoli, secondo il relatore filosofo, sovverte questa tradizione, come si può cogliere dallo stesso “linguaggio dell’articolato in discussione al Senato, rivelatore delle teorie ispiratrici dello stesso”. “Ad esempio, si parla -spiegava all’attento pubblico- di menomazione dell’autonomia della persona e non del malato; quindi, non è chiesta la condizione patologica, cosicché c’è il rischio che prevalga una concezione non oggettiva, bensì funzionalista della dignità umana”, il cui valore dipenderebbe, pertanto, dalla capacità di performare, a tutto danno dei più fragili. “Allora, valga per tutti -concludeva- il monito del grande pensatore cattolico Sergio Cotta, che ha chiarito come, introducendo questo tipo di norme, si rischia di sancire non solo il diritto di morire, ma anche la morte del diritto, perché se il diritto nega la difesa dell’innocente e del più debole, la funzione giuridica scompare e si entra nel perimetro dell’arbitrio del socialmente più forte”.
Tre passaggi per l’intervento finale di Domenico Menorello, avvocato, dell’Osservatorio parlamentare “Vera lex?” e dell’Agenda Pubblica “Ditelo sui tetti (Mt 102,7)”. Nel primo, riprendendo il filo srotolato da Rocco Vitale, sono stati rintracciate altre chiare tracce nella pdl 2553 di una precisa antropologia “dello scarto”. “In filigrana si può ben vedere -indugiava il legale padovano- il modello umano di Prometeo, ovvero un uomo misura di tutte le cose, che ha valore se fa quel che vuole, se ha autonomia e totale autodeterminazione, in un assoluto soggettivismo solitario dove gli altri, la realtà e la responsabilità sono lacci da cui liberarsi grazie a un nuovo diritto”. “Ma -proseguiva- se io valgo nella misura in cui mi autodetermino, se invece non ho piena autonomia allora non ho pieno valore e la prospettiva è il nulla, che pretendo dallo Stato”. “La proposta di legge 2553 -proseguiva- propone, infatti, la morte di Stato quando non c’è autonomia, nemmeno nominando una situazione di terminalità. In particolare, le «condizioni cliniche irreversibili» cui si riferiscono gli artt. 1 e 3 sono anche le disabilità o le dilaganti cronicità patologiche, come il diffusissimo m. di Parkinson che fanno scemare l’autodeterminazione”. Anche il “dolore viene assunto dall’art. 3, comma 2, esclusivamente in una misura soggettiva, così come la definizione, sempre al comma 2 dell’art. 3, di imprecisati e dunque amplissimi «trattamenti di sostegno vitale» che consentono di accedere alla morte di Stato, rivelano il tabù e l’orrore ideologico per qualsiasi forma di dipendenza” .“Peraltro, siamo molto oltre -chiosava poi il rappresentante dell’Agenda- i paletti posti dalla sentenza della Corte n. 242/19, che viene direttamente violata quando si ignorano le cure palliative come pre-requisito (art. 5, comma 3), quando si introduce il «diritto di morire», rendendolo azionabile davanti a un Giudice (art. 5 comma 8) ovvero l’obbligo di praticare il suicidio assistito da parte del Servizio Sanitario Nazionale, inserito nei LEA (art. 11, comma 2) , che, di conseguenza, non ha più la funzione di preservare «la salute senza distinzioni di condizioni individuali», come scandisce il senso dell’art. 3 della costituzione il conseguente art. 1 della legge 833/1978”.
In un secondo momento, Menorello ha inquadrato questa proposta in una impressionante filiera di norme che, anno dopo anno almeno dal 2014, pretendono, letteralmente, di “dettare legge” nelle convinzioni esistenziali e ideali di ciascuno, indicando come “bene” “una idea di uomo a dignità variabile, a seconda della sua capacità di attuare i canoni dell’autodeterminazione e cioè del suo successo, in assenza dei quali un novello Stato etico può stabilire la non dignità del vivere e scartare l’esistenza dei più deboli, suggerendone, da ultimo, l’abbandono e la morte medicalmente assistita “
“Dobbiamo proprio accorgerci – proseguiva – che questi tratti della nuova legislazione e del nuovo diritto sono conseguenze del «cambio d’epoca» in cui siamo immersi, secondo la impressionante intuizione di Papa Francesco. E proprio questa nuova epoca, in cui non esiste alcuna certezza dalla tradizione e sotto il mantra dell’autodeterminazione si vuole imporre la cultura dello scarto, noi possiamo ancora di più scoprire e stupirci fino in fondo di quanto sia più umana quella concezione sull’uomo di Francesco d’Assisi, per cui «anche i capelli del capo sono contati» e per cui la fragilità è rispettata, come ci ha chiesto don Sapuppo, in quanto condizione speciale in cui emerge alta, indomita e insopprimibile la domanda di senso e di bellezza propria di ogni uomo”. “Per questo -chiariva come terzo passaggio— tante associazioni del laicato vogliono lavorare assieme per giudicare pubblicamente, cioè “sui tetti”, quale filigrana antropologica prometeica determini le nuove norme dello scarto e quale alternativa di vita possa, invece, declinarsi nella contemporaneità, illuminati dalla antropologia di Francesco”. “Di qui, cure palliative, assistenza domiciliare h24, sostegno a tutti coloro che si fanno prossimo ai più fragili sono una risposta alta, perché non solo rappresentano strumenti efficaci al dolore e alla malattia, ma esaltano la possibilità di attenzione e compagnia in ogni circostanza donata di vita!”. “E lo diciamo – concludeva- «SUI TETTI» perché vogliamo dialogare con tutti di questo livello della questione, affinché ognuno possa laicamente scegliere, per sé, quale sguardo percepisca più umano e dunque più pieno di ragioni”.
E da Catania, ci troveremo per riaprire il dialogo il giorno 30 giugno “sui tetti” di Tricase (Lecce) e poi sulla bella sponda dell’Adige veronese, l’8 luglio.