Il disegno di legge sul suicidio assistito si prefigge di garantire al singolo cittadino il diritto di morire con dignità. Così si dice. Andando oltre lo slogan e andando al cuore della questione, ci si accorge che, in realtà, esso va nella direzione opposta, consegnando allo Stato il giudizio etico di dichiarare inutile e non dignitosa una vita. Ecco, di seguito, le ragioni per le quali auspico che il disegno di legge in questione venga modificato.
Sr Anna Monia Alfieri
“Nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della grandezza spirituale che nell’uomo supera il corpo in modo del tutto incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali”.
Giovanni Paolo II, Salvifici doloris
Due premesse fondamentali: 1) la vita è apertura all’altro, attenzione ai suoi bisogni, sguardo sollecito e amorevole alle sue fragilità, 2) il concetto di libertà non può essere interpretato come il diritto all’autodeterminazione del singolo: se così fosse, la libertà sarebbe la triste anticamera di una disperata solitudine. Il significato autentico di libertà è, invece, l’esatto opposto: apertura, senso di responsabilità che diventa corresponsabilità, ossia presa in carico dell’altro. Queste due premesse costituiscono il punto di partenza della discussione, un punto di partenza che deve essere necessariamente condiviso, pena l’impossibilità del confronto stesso. Del resto, non si nasce e non si muore per noi stessi, abbiamo un compito di bene per la società, per il benessere di chi ci sta a fianco e condivide la nostra umanità. Sic et simpliciter. Da questa prospettiva guardiamo al disegno di legge oggetto di discussione al Senato.
La Corte Costituzionale ha bocciato, come sappiamo, la proposta referendaria su tale tema. Il Parlamento Italiano è, quindi, impegnato a discutere il ddl sul suicidio assistito, in tempi ragionevoli e coerenti con l’importanza della questione che coinvolge il malato, i familiari nella loro estrema sofferenza e il medico che, come tale, se non sempre può guarire, non è chiamato a uccidere. Il malato può chiederglielo, si presuppone in modo consapevole. Se ricordiamo, il diritto a scegliere se continuare a vivere o morire era già stato garantito attraverso il testamento biologico, con la possibilità di sospendere le cure e lasciarsi morire (Legge 219/2017). Tale possibilità non è parsa, tuttavia, sufficiente: si è voluto legiferare sul suicidio assistito, ossia su come aiutare a morire, tramite il ricorso a sostanze letali, il malato terminale che, legittimamente, vuole morire con dignità.
Ora, però, sulla base delle due premesse con le quali abbiamo esordito, l’omicidio non può essere accettato, mai, esattamente come non esiste una guerra giusta. L’interruzione delle cure non può essere la soluzione che dona dignità al malato. E non si tratta di mancanza di compassione nei confronti del dolore degli altri. Chiediamoci: il disegno di legge in esame in quale direzione va? Soprattutto: porre allo scontro due diritti non rappresenta mai una soluzione al problema che si vuole risolvere. Infatti, da un lato c’è il malato (attenzione: non lo si chiama neanche più persona, è subentrato il processo spersonalizzante della categorizzazione, “malato”) che afferma di voler morire: per lui vale la presunzione che sia perfettamente libero, senza condizionamenti di sorta. Sul fronte opposto, però, c’è chi è chiamato a commettere l’omicidio, ossia il medico che cessa, così, di essere libero e subisce, invece, un evidente condizionamento, essendo chiamato a somministrare un farmaco letale. Questo è il risultato di quando si mettono i diritti allo scontro.
Non è possibile, a tal proposito, non ricordare il DDL Zan che si prefiggeva di contrastare la discriminazione: in realtà, agli articoli 1, 4 e 7, esso andava verso l’esatto contrario e, minando tre importanti diritti costituzionali, quali la libertà di espressione (art. 21 Cost), la libertà di scelta educativa (Art. 30 cost.) e la libertà di insegnamento (Art. 33 Cost), non solo alimentava la discriminazione ma, peggio, mascherava l’imposizione del pensiero unico, elemento del tutto incostituzionale. Dopo la bocciatura in Senato, il sen. Zan affermò che, in realtà, quei tre articoli non erano essenziali ad una legge contro la discriminazione. Il buon senso – inascoltato – prevalse dopo ore e ore di audizioni in commissione (tempo, studio non retribuito anzi fatto oggetto di inutili beffe). Sarebbe bastato un unico articolo che stigmatizzasse ogni tipo di discriminazione, ribadendo la normativa pregressa. Costituzione in primis. Le realtà più semplici sono spesso quelle più difficili da realizzare perché sono prive di interessi terzi che concorrono solamente alla facile strumentalizzazione.
Tornando al nostro tema, la conferma del fatto che si sia di fronte allo scontro di diritti è rintracciabile nel timido accenno all’ “Obiezione di coscienza” del medico (combinato disposto degli Art. 5, comma 8 – Art. e del PDL Bazoli – Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita). Si presume, pertanto, un diritto a morire e un corrispondente obbligo del SSN di dare la morte, anche se è previsto che il medico si possa rifiutare, sollevando eccezioni di coscienza: in sua vece interverrà il giudice.
Lo scontro tra due diritti e una presunta compassione per il sofferente, assolutizzando casi limite come quelli che hanno visto protagonisti Eluana Englaro e Dj Fabo, fanno propendere l’opinione pubblica verso il diritto della persona ammalata ad essere aiutata a morire con dignità. Affinchè l’operazione riesca, è necessario che il malato sia solo e tale si percepisca, abbia come metro di misura se stesso e la sua sofferenza: come si può notare, scompaiono la famiglia e la comunità, viene cancellato il concetto di presa in carico: in estrema sintesi, scompare il “diritto alla cura”, eliminando così la certezza che il medico, se non ha il dovere di guarire, ha almeno il dovere di lenire la sofferenza. Occorre prestare grande attenzione alle conseguenze, nefaste, di una tale posizione: se cade il “diritto alla cura”, necessariamente non solo non occorre più essere un malato terminale (Art. 1 e Art. 3 comma 2 Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita) ma non serve più alcuna oggettività (Art. 3 c. 2) per chiedere di morire. E’ sufficiente, allora, che
*la persona sia in una “condizione clinica irreversibile” (bando, allora, alla ricerca medica)
*abbia una disabilità o una non-autosufficienza correlata con patologie croniche (con cui di per sé si può convivere, come avviene a centinaia di persone)
*sia maggiorenne e capace di intendere e di volere
*consideri intollerabili per sè, in quel determinato momento storico, quelle sofferenze fisiche e piscologiche
Ecco elencati i presupposti necessari all’omicidio legalizzato. E’ evidente che il ddl è basato su di una soggettività assoluta, con la solitudine del malato a fare il resto: “meglio uccisi che dipendere da un trattamento sanitario vitale”. Siamo di fronte al “soggettivismo assoluto”, ad una persona che si percepisce, e di fatto lo è, sola a misurarsi con la malattia. Il parametro della sofferenza è lasciato alla mera percezione del soggetto, in quel determinato momento nel quale il malato prende la decisione, privo di ogni intervento di cura e di supporto familiare e psicologico. Diversa è, invece, la legittima richiesta di non essere mai sottoposto a nutrizione enterale. E’ ovvio che la solitudine acuisce il senso della dipendenza (Art. 3, comma 2) che fa paura e fa paura a tutti, ancor più ad una persona ammalata da decenni: chi ha sperimentato una malattia lunga, invalidante, soprattutto quella poco visibile che insinua nella mente e nel cuore del malato di essere un malato immaginario, in certi momenti della vita, fa intravedere nella morte la liberazione, per sé e per i familiari. Il malato costa in termini economici: nella nostra società dell’efficienza, della produzione, del profitto economico il malato è un peso. Meglio la chemio ad un malato terminale che comunque sa che fra quattro mesi deve morire o meglio investire le stesse somme in terapie innovative per un bambino? Meglio curare un anziano di 90 anni o meglio investire nella ricerca dei bambini oncologici? Un anziano, un disabile che si sente già un peso per i figli che se ne prendono cura, per un sistema sanitario che è sempre a corto di danari, certamente toglierà il disturbo. Se ho il diritto a morire, ho il dovere di togliere il disturbo: è una logica conseguenza che solo chi è per davvero ammalato e deve ogni giorno trovare le ragioni prime ed ultime per vivere può capire.
Ma, in fin dei conti, chi decide chi deve vivere o morire e, soprattutto, cosa è dignitoso? In una logica economica, un malato oncologico costa e, se la prospettiva sono 4 mesi, che senso ha curarlo, con giorni di ricovero, interventi forse, terapie…? Tutto sprecato, tanto il paziente morirà. Sarebbe sufficiente la terapia del dolore o un farmaco letale, magari per i parenti. Ma anche per l’economia. Ma noi sappiamo che dietro l’economia c’è l’uomo, in quanto uomo. Il covid ci ha insegnato a misurarci con i nostri limiti e a ritrovarci soggetti liberi, quindi, solidali: fuori da questa logica di libertà e solidarietà non c’è vita. Il ddl Bazoli/Zane cc… assegna allo Stato il ruolo etico di dichiarare inutile e non dignitosa una vita umana (Art. 2 comma 3) e istituisce all’Art. 7 i “Comitati per la valutazione clinica” ai quali viene assegnato il compito di “garantire la dignità delle persone malate e di sostenere gli esercenti le professioni sanitarie nelle scelte etiche”. E’ proprio il giudizio etico, non medico, dello Stato ad essere considerato l’ultima irreversibile decisione sulla “dignità” di dare la morte ad una vita evidentemente considerata non più dignitosa: questa è la forzatura che ci conferma come questo disegno di legge va nella direzione opposta a quella che si prefigge, tipica conseguenza di un ragionamento fondato sullo scontro fra i diritti. Si legittimano, al contrario, interessi terzi, spesso economici, aberranti, che in altro modo non avremo mai neanche solo tollerato.
Chi da anni è in prima linea per garantire il diritto di apprendere dello studente, senza alcuna discriminazione economica, in un pluralismo educativo, con la garanzia alla famiglia della libertà di scelta educativa, con uno Stato garante e non gestore della scuola, reputa intollerabile per senso civico (senza scomodare l’etica e la morale) che il Parlamento accetti e legittimi un simile giudizio di disvalore verso i più deboli (anziani, disabili, malati psichici, poveri), assegnando allo Stato la decisione etica sulla dignità della vita. Mi auguro che il Senato legiferi in modo onesto su una questione tanto delicata: se così non fosse, sarebbe evidente l’esistenza di interessi terzi non dichiarati che si intendono tutelare o, peggio, si considererebbero i cittadini incapaci di decidere e per loro decide lo stato. Quod Deus avertat.
La legge sulla eutanasia mina le fondamenta della convivenza civile. Certamente il diritto ad una vita dignitosa è un tema aperto ma è chiaro che questa legge che vuole aiutare i più fragili, in realtà, è indirizzata proprio a toglierli di mezzo. Mi auguro che il Parlamento Italiano che ha dimostrato, bocciando il ddl Zan, una reale sensibilità nei confronti di tutti i cittadini, perchè i diritti non vengano mai messi allo scontro, sappia fare altrettanto con la legge sul fine vita. In una società pluralista, come quella italiana, non si può pretendere di far coincidere la sfera etica con quella giuridica. Ecco, allora, il percorso da compiere:
- si ritorni a guardare alla persona come tale e non come numero
- si ritorni ad investire nella formazione, nella scuola, per dare ai giovani gli strumenti per orientarsi in modo libero e solidale
- si investa nelle cure palliative e nell’assistenza domiciliare h24
- lo Stato ritorni ad investire in cittadini protagonisti di un nuovo Welfare e non solo portatori di bisogni da regolamentare. Soprattutto, lo Stato legiferi sulla garanzia del diritto a vivere e a morire in modo dignitoso, liberando il sistema dall’illegalità e non aprendo nuove sacche di povertà e di discriminazione
Vivere in modo dignitoso vuole dire vivere per l’altro. Questa è la scelta da compiere. Ogni giorno.