-Appunti sparsi dai “tetti” di Siena”-
Dopo gli appuntamenti di Milano, Bari, Piacenza e San Giovanni Rotondo, il dialogo promosso a tutto campo e in tutta Italia dal network associativo “sui tetti” sul disegno di legge per il c.d. “suicidio assistito” ha parlato toscano.
Mercoledì 15 giugno nella splendida cornice del complesso della Santissima Annunziata in Piazza Duomo a Siena, si è svolto un intenso e ricco pomeriggio di lavoro a proposito della proposta di legge 2553 pendente al Senato, intitolata alla “morte volontaria medicalmente assistita”, promosso dalla pastorale sanitaria della Diocesi senese, con la fattiva azione di associazioni quali il Centro Studi Livatino, il Movimento per la Vita, Scienza e Vita, l’Osservatorio di bioetica di Siena, i Medici Cattolici (AMCI) e ACOS, oltre che dell’Agenda Pubblica “Ditelo sui tetti (Mt 10,27)”.
L’avvio è stato d’eccezione, con il saluto del Cardinale Augusto Paolo Lojudice, che ha valorizzato la necessità dei laici di stare di fronte alle sfide poste dalla contemporaneità cercando la comunione in un giudizio condiviso di ragioni– “Non dobbiamo camminare da soli! -ha chiesto- Perché la Chiesa non deve tanto fare delle battaglie ideologiche, ma adoperarsi in ogni modo perché ci si convinca che una opzione è migliore di un’altra. Quindi, è importante una strategia che sottolinei alcune questioni con modalità utili a far sì che nelle persone si possano sedimentare le ragioni. Non servono gli «strilloni». Soprattutto, dobbiamo mettere a fuoco con intelligenza e pacatezza anche il tema che riguarda la vita, cioè quel filo sottile che appartiene a Dio. Noi crediamo che l’esistenza appartenga a Dio e che comunque della vita nessuno ne possa disporne”. “Su questo livello – concludeva il Cardinale- vanno illuminate le coscienze per tirar fuori ciò che tutti hanno dentro il cuore. Per questo, momenti come quelli di questa sera sono un servizio non solo alla Chiesa ma all’intera umanità”.
Le riflessioni, coordinate magistralmente da Giuliana Ruggieri dell’Osservatorio bioetico di Siena, hanno indagato a fondo su alcuni tratti della proposta di legge c.d. “Bazoli”, licenziata dalla Camera e ora all’esame del Senato, e ciò grazie agli spunti offerti dal prof. Alberto Gambino, prorettore dell’Università Europea e presidente di Scienza e Vita. “Questo testo non è il primo atto in tema di una tentata disciplina del momento della morte, perché nel nostro ordinamento il suicidio assistito è stato in qualche modo introdotto con il caso Englaro e poi con la legge 219/17 sul c.d. biotestamento”, spiegando che “un conto è il diritto di rifiutare un trattamento sanitario, che non è mai stato oggetto di dubbio ed è sancito dalla stessa costituzione; altro è se il presidio sanitario sia già in atto e il trattamento venga interrotto. Infatti, una simile interruzione è certamente un atto votato alla morte del paziente, risolvendosi in una modalità di suicidio assistito. Ma chi deve decidere come si muore e quale sia la dignità del morire? In questo contesto sono arrivati i passi successivi di cui alla sentenza della Consulta n. 242/19 al disegno di legge licenziato dalla Camera”. “Da parte di molti di noi rimane una contrarietà assoluta ai contenuti della legge 219/2017 e della pronuncia 242 sul piano morale e relazionale, perché solo l’accompagnamento senza sofferenza fino alla morte naturale è l’atteggiamento adeguato, come dimostra anche l’esperienza così diffusa di tante questioni che si riescono a sciogliere nei rapporti fra le persone proprio in quel tempo specialissimo che sono le ultime settimane di vita!”.
“In ogni caso – ha proseguito il prof. Gambino- la legge deve essere almeno conforme a quello che ha detto la Corte costituzionale e, invece, il ddl 2553 pendente al Senato va ben oltre”.
“Per un primo aspetto di sostanziale differenza fra la sentenza 242 e il proposto testo di legge, la Corte non introduce assolutamente l’assistenza sanitaria al suicidio addirittura in caso di disabilità, come accadrebbe, invece, per quelle «condizioni cliniche irreversibili” che si leggono nella pdl 2553”. Tale aspetto, secondo il Presidente di Scienza e Vita, “stravolge anche il dovere di solidarietà che è fatto proprio dal nostro ordinamento”, come si legge nello stesso art. 2 della Costituzione, cosicché “chiediamo a gran voce ai senatori di espungere questo tratto grave della proposta”.
“La Corte, poi, ha introdotto una chiarissima e imprescindibile pre-condizione al suicidio assistito: la somministrazione di cure palliative, ritenendo che solo all’interno di un percorso di palliazione si possa scegliere serenamente. Invece. il ddl 2553 rompe questo schema e consente di optare fra la palliazione o la morte assisitita. Ma terapia del dolore e suicidio assistito non sono affatto sullo stesso piano nelle condizioni poste dalla Consulta, il che ci fa ritenere che si vorrebbe dare priorità ai risparmi della spesa pubblica rispetto alla cura di vite fragili”.
Il giurista ha, inoltre, criticato la possibilità di ricorrere al Giudice in caso di contrasto fra la volontà del richiedente e la disamina che deve essere svolta a seguire dagli organi tecnico – sanitari, in quanto, se questi ritengono che non vi siano le condizioni cliniche per procedere alla morte di Stato, non si capisce in base a cosa un Tribunale potrebbe disattendere tale valutazione medico-scientifica.
Infine, Alberto Gambino ha proposto all’attenzione del legislatore un fattore spesso taciuto, secondo cui, cioè, “la Corte costituzionale non prescrive affatto che le strutture pubbliche in cui somministrare la morte siano gli ospedali; anzi, aggiunge che queste pratiche non obbligano i medici, cioè il SSN. Infatti, gli ospedali sono il luogo della cura e non possiamo rischiare di capovolgere il senso del sistema sanitario, come si prefigura, invece, nel ddl 2553”.
E a proposito del senso dell’”essere medici”, l’intervento del palliativista dott. Andrea Manazza dell’AULSS 4 di Chivasso, ha fatto calare in sala quel silenzio di quando si rimane inaspettatamente commossi nell’intimo del cuore. “Noi stiamo accanto al malato sino alla fine”, ha esordito. “E accompagnando migliaia di persone alla morte, ci sono chiare le domande essenziali che sempre pongono. Perché i malati chiedono l’eutanasia? Perché vogliono dire a me, innanzitutto a me come medico, che hanno davvero dolore o una sofferenza esistenziale e mi stanno chiedendo di risolvere questi problemi. La richiesta di morte – sintetizza- è una richiesta di aiuto! Significa che c’è una sofferenza non risolta e bisogna cambiare terapia, condividendo con il malato e i suoi cari il suo ultimo tratto di strada”. Raccontando storie vissute e catturando una palpabile affascinata attenzione dei presenti, il dott. Manazza ha spiegato come ci vogliano terapie farmacologiche mirate al caso concreto, esito non tanto di protocolli ma di una cura declinata sulla singola persona. E di esempio in esempio, il palliativista ha reso testimonianza di percorsi umanissimi di accompagnamento alla morte, che “non cerco e non causo”. Perciò, il medico concludeva volendo essere del tutto chiaro sull’evocato tema del senso del servizio sanitario: “A me non potrete mai chiedere di interrompere la vita del paziente”, con ciò, passando il testimone alla ricca e articolata relazione della vicepresidente nazionale dei Medici Cattolici, Maria Nincheri Kunz, che, fra l’altro, non ha avuto dubbi nel riferire che “secondo la letteratura medica internazionale, l’eutanasia è completamente opposta alla natura e allo scopo della medicina”.
Sulle stesse affascinanti tonalità la testimonianza della dott.ssa Costanza Galli, direttrice delle strutture sanitarie per le cure palliative della Toscana Nordovest, che, senza mezzi termini, ha chiarito come siano gli stessi “dati” a rivelare “che dove ci sono le cure palliative crollano le richieste di eutanasia”, “ma – ha aggiunto echeggiando gli affondi di Alberto Gambino a commento della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019- “se le cure palliative sono un vero e proprio diritto, esse costano molto mentre l’eutanasia è una grande soluzione economica …”. Di qui, è stato aperto l’impietoso sipario sullo stato della situazione in Italia, descritta dal dott. Carlo Bellieni dell’Università di Siena, che ha rappresentato come “solo il 14% di chi ha bisogno riceve le cure palliative, mentre la cura del dolore dovrebbe iniziare appena uno mette piede in ospedale”.
Le dirette testimonianze offerte dai palliativisti sono anche il più ragionevole commento alla contemporanea morte per suicidio assistito di “Mario”, che avveniva -sostanzialmente in contemporanea al seminario senese- nelle vicine Marche. Un fatto drammatico che è una sconfitta della comunità e del Servizio Sanitario, che non hanno saputo offrire una adeguata terapia del dolore, come cura e attenzione sanitarie e relazionali adeguate, abbandonando una persona a una prospettiva e a un giudizio su di sé di disvalore.
Il fondo della questione posta dal ddl 2553 e dal nuovo fatto di cronaca è stato reso da Marina Casini, presidente del Movimento per la Vita Italiano: “La sfida è antropologica”. “Io chi sono? Questa cioè è la domanda di un malato come quella di un bimbo nel grembo”. “Ma se – le ha fatto eco Domenico Menorello del network dell’Agenda Pubblica “sui tetti”- il valore di una persona è esclusivamente nella cifra della sua capacità di autodeterminazione, secondo il mantra martellante di una incessante filiera di leggi dal 2014 al ddl 2335, allora quando si è meno autonomi o incapaci di una piena autosufficienza non si avrebbe più valore, il senso dell’uomo diviene il «nulla» di cui la morte è la logica conseguenza. Questo «nulla» ha bisogno di uno Stato che, a mezzo dei comitati voluti dalla Bazoli, ridiventi etico, con buona pace del principio di laicità, ergendosi a certificatore dell’indegnità di una vita con la relativa inutilità dell’utilizzo di risorse pubbliche, per procurarne poi lo scarto, cioè la morte, come è accaduto in ben altri periodi storici”. “Abbiamo il compito di stare, assieme, davvero dentro e di fronte al cambio d’epoca, in cui tutte le certezze della tradizione sono svanite – proseguiva Menorello- il che significa saper riconoscere e indicare pubblicamente quale sia la pretesa culturale che vuole essere imposta anche tramite la forza di una legge, per proporre e offrire a tutti, come ci sollecitava il Cardinale Lojudice, un dialogo che aiuti ciascuno a giudicare quale sguardo sull’uomo sia più ragionevole e corrispondente alla struttura del nostro cuore”
Che il tema di fondo sia proprio il rintracciare quella opzione culturale e antropologica che appare la stessa in tante e reiterate iniziative normative, è comprovato, secondo Marina Casini, dall’evidenza per cui “la mentalità eutanasica è figlia della mentalità abortista: se una società permette che dei bimbi non vengano alla luce per dei motivi tutto sommato sociali, cosa impedisce che per gli stessi motivi si indirizzi alla morte un anziano o un malato?”.
Ma, rilancia la Presidente del Movimento per la Vita, “il mito ideologico che ci viene imposto con tonalità abnormi, quello della autodeterminazione, nasconde e cancella la verità umana che ci dice che, invece, siamo dipendenti relazione”. Già! Come scrive in una recentissima pubblicazione uno dei più grandi filosofi italiani viventi, Dario Antiseri, “l’uomo non è un costruttore di senso, bensì un mendicante di senso”. Cioè, chiosa ancora Marina Casini, “l’uomo è trascendente e l’altro da sé deve essere visto come un dono, come un mistero da incontrare e, per questo, da curare in ogni istante della sua esistenza, sempre segno di una promessa buona e di un compimento”.
Il dialogo è riaperto e continuerà il giorno 20 giugno ad Avellino, il 24 a Catania, il 30 a Lecce (Tricase), con vista su Udine.
Arrivederci “sui tetti” a presto, dunque!